domenica 15 aprile 2012

L'UOMO CHE PORTO' IL CINEMA A GIANCAXIO, un racconto di Agostino Spataro


L’UOMO CHE PORTO’ IL CINEMA A GIANCAXIO

di Agostino Spataro

Una premessa necessaria
L’altro giorno (11 aprile 2012), i giornali locali hanno sbattuto in prima pagina la notizia dell’arresto, a Porto Empedocle, di un pericoloso latitante scovato dai carabinieri, dopo dieci mesi di ricerche anche all’estero, dentro un’intercapedine della propria abitazione.
Come dire: il ricercato non si era mai allontanato da casa sua.
Succede. E successo tante volte. Specie con i grandi latitanti di mafia, di camorra. Perciò uno si aspetta di vedere uscire un pericoloso boss della criminalità organizzata.
Invece… Invece, è uscito Armandino Lo Cascio, resosi latitante a seguito di una condanna per “stalking” ossia per molestie a danno di una signora.
Sconoscendo i termini della triste vicenda, non desidero entrare nel merito delle inchieste e dei relativi processi, confidando, fino a prova contraria, nell’operato delle forze dell’ordine e nell’oculato giudizio della magistratura.
Tuttavia, confesso che mi risulta problematico vedere nei panni di un molestatore maniacale quel ragazzino, esile e un po’ introverso, che conobbi, a metà degli anni ’50, come figlio e collaboratore dell’uomo che ha portato il cinema a Joppolo Giancaxio, il mio paese.
Ovviamente, tale pregio non lo assolve per gli eventuali errori commessi in anni successivi.
D’altronde, fra la vicenda attuale (di cui è vittima una signora per bene) e i suoi trascorsi joppolesi non c’è alcun legame.
Se li ricordo, è solo per il loro valore umano, evocativo e anche per dire quali contorti percorsi può imboccare la vita di ognuno.
Ciò che mi preme evidenziare è l’apporto culturale che, mediante il cinema, la famiglia Lo Cascio ha dato alla grama realtà del paesino.
Il cinema, infatti, dischiuse le porte di un mondo a noi ignoto, affascinante che si svolgeva sul filo della realtà e della fantasia.
Perciò, sono andato a rispolverare l’appunto seguente che pubblico, in forma ancora grezza,  sul mio blog:  Montefamoso. blog spot.com
   
1.. Incrocio il signor Gianni mentre scende per via Atenea, sottobraccio alla moglie, signora Tanina.
Li rivedo dopo tanti anni. Sono due vecchietti ancora arzilli, figli di un’altra epoca.
La nostra generazione, la prima del secondo dopoguerra, visse a cavallo fra l’epoca passata e quella da poco iniziata, fra un’Italia contadina, provinciale e fascista, e un’Italia democratica del miracolo economico, della scuola media e delle comunicazioni di massa. 
Nel fervore di quegli anni, molti, i più anziani, rimasero al di qua di tale linea, i più giovani tentarono di oltrepassarla, anche cercando all’estero una soluzione di vita.
Anche nei borghi di campagna giunsero, per quanto lenti e sfigurati, gli echi e i rudimenti della vita nuova.
Il cinema, per esempio, di cui ci occuperemo in questo scritto, arrivò a Joppolo Giancaxio nel 1954, a sessant’anni circa dalla sua invenzione da parte dei fratelli Lumiere.
Anch’esso attirato dal benessere improvviso creato dalla presenza degli americani della Gulf Oil Company che cercavano “l’oro nero” nelle viscere argillose di Montefamoso.
Ricordo quel biennio in cui ci siamo illusi. Ci fu lavoro per tutti e, per la prima volta, i nostri contadini videro la busta-paga.
Con i salari arrivarono le radio e i giradischi e quindi la musica moderna, l’allegria, e le notizie di fatti lontani. Il petrolio attirò cantastorie, illusionisti e imbonitori di sogni e di colorate mercanzie.
Scene da “nuova frontiera” che presto svaniranno perché sotto Montefamoso non si trovò petrolio ma un fiume d’acqua amara.
Certo, fu solo un miraggio ma ci fece vivere la nostra porzione di felicità.  

2… Il cinema lo portò il signor Gianni Lo Cascio da Palermo.
Giunse un pomeriggio di settembre a bordo un camioncino, pluridecorato di madonne e cavalieri saraceni, che trasportava, stipata in cabina, una famigliola bionda e un ammasso di mobili, masserizie e una vespa grigia.
Erano il signor Gianni e la moglie Tanina e i loro due bambini: Armando, esile e un po’ introverso, e Franco, il suo contrario, paffutello ed espansivo.  
Stavamo giocando in piazza, a piedi nudi, con una palla di pezza e subito corremmo a curiosare intorno al camioncino dal quale scaricarono, per ultima, una cassa grande di faggio bianco che trattavano con molta cura come se contenesse la reliquia di un santo.
Per frenare la nostra invadente curiosità, il signor Gianni ci svelò l’arcano: nella cassa c’era il “cinema” ossia l’attrezzatura per impiantare il cinematografo.
“Vi abbiamo portato il cinema, la settima arte”- esclamò. “Una cosa mai vista a Giancaxio! ”.
Quanto tempo è passato! I giochi, gli amori, la gente, i volti, i nomi, i soprannomi, i paesi…tutto sbiadito, svanito. Solo immagini sfocate, figure incerte che identifichi da quel che sono stati.
Per me, i Lo Cascio sono il cinema e null’altro.
Soprattutto il signor Gianni, l’operatore, non riesco ad immaginarlo in altra veste. E’ l’uomo delle meraviglie, colui che ha portato il cinema a Giancaxio.
Oggi, quella sala, ricavata da un magazzino, non esiste più. E’ stata demolita, col resto della casa dove la famigliola prese alloggio, per creare un passaggio verso alcuni terreni edificabili altrimenti inaccessibili.
Uno sventramento che qualche buontempone del Comune ha osato chiamare via Empedocle.
Forse per stabilire una colleganza impropria col famoso “vallo” che il filosofo fece scavare sul contrafforte naturale di Akragas per far entrare il vento di tramontana e prosciugare le paludi, a valle, infestate dalla malaria. Nel nostro caso, è stato creato un corridoio spoglio attraverso cui, più che gente, passa il gelido vento di tramontana che, d’inverno, disturba il passeggio nella piazza principale.


3.. Eccoli, dunque, i due vecchietti del nostro cinema, quello delle grandi passioni d’amore, delle esilaranti risate delle pellicole di Totò e di Ridolini e degli indomiti cow boy, scendere a braccetto per questo budello di vetrine dove si riflettono i desideri insoddisfatti degli agrigentini.
Nonostante l’età avanzata, il signor Gianni è sempre lui. Smilzo e biondo nel fisico, cortese e composto nei modi e ben curato nel vestire: giacca e cravatta e pantaloni con la riga ben tirata,  scarpe lucide come quei radi ciuffi di capelli impomatati.
Sul viso l’unica novità degna di nota è un paio d’occhiali chiari con la montatura in oro.
Queste poche pennellate credo che bastino per presentarvi il signor Gianni ovvero “l’uomo delle meraviglie”.
In quel borgo di braccianti poverissimi, prima del cinema non si era visto nulla di così eccitante.
A parte la gigantesca sonda, eretta dagli americani sulla cima di Montefamoso al centro
dell’immenso cratere, che poteva essere vista da luoghi lontani, specie di notte, quando bruciava la sua lingua di fuoco che accendeva in noi la speranza del progresso e della libertà.
Qualcuno la paragonò alla torre Eiffel che a Parigi attirava milioni di turisti e a Giancaxio avrebbe attirato migliaia di tecnici e di operai.
Quella torre era il nostro totem a cui chiedemmo un miracolo forse troppo impegnativo: fermare l’emigrazione e far rientrare i joppolesi sparsi per i continenti più remoti. 
E così, senza volerlo, diventammo adoratori di nuovi idoli pagani e del fuoco eterno, simili a  neoadepti della religione di Zarathustra.


4.. A quel tempo, a Joppolo, quasi si sconoscevano le forme del moderno spettacolo.
Si ricordavano i saltimbanchi e i teatranti vagabondi che, di tanto in tanto, venivano durante gli anni tristi della guerra.
Non erano vere compagnie ma famigliole d’artisti improvvisati e/o decaduti, disperati e affamati che scappavano dalle città bombardate a cercare rifugio nei miseri borghi dell’interno (che la guerra fortunatamente trascurava) dove barattavano le loro prestazioni per un tozzo di pane o per  qualche uovo fresco.
Andava “forte” il vecchio varietà nel quale protagonista obbligata era la donna tuttofare ossia la moglie del titolare, di giorno madre professa  e di notte attrice, cantante, ballerina di can can e assistente del maldestro marito-mago che non sempre riusciva ad incantare il pubblico.
Specie quando dal cilindro il coniglio non fuoriusciva. L’uomo la sgridava ma per finta, per giustificarsi agli occhi dell’irrequieto pubblico.
L’improvvido illusionista sapeva di non potere illudere nessuno giacché il coniglio se l’erano mangiato il giorno prima. Tanta era la fame!
Valletta e ballerina, talvolta, dopo lo spettacolo, si adattava a fare qualche altro indicibile servizio. Per arrotondare. Storie di antica miseria che la guerra aveva ingigantito.
L’unico canale di comunicazione, l’unico filo che collegava Joppolo con il mondo erano quei quattro o cinque apparecchi radio che gracchiavano nelle case di talune famiglie facoltose che, di fatto, detenevano il monopolio dell’informazione.
Chi possedeva una radio si atteggiava come padrone delle notizie che selezionava, manipolava, a suo piacimento, e centellinava nelle conversazioni al circolo, dal barbiere o nei crocicchi in piazza.
E nessuno l’avrebbe potuto smentire.
Il cavalier Amerigo restò famoso per aver saputo amministrare il suo “potere” mediatico con una dovizia davvero proverbiale, quasi che le notizie le fabbricasse lui. 
Di tanto in tanto, giungeva anche un cantastorie con i suoi “lamenti” per le ingiustizie patite dal popolo silente. Solo lamenti e pianti. Niente progresso per i siciliani, ancor meno rivoluzione.
Munnu ha statu e munnu è”, soleva ripetere l’arciprete che temeva qualsiasi turbamento o, peggio, mutamento delle coscienze dei suoi parrocchiani.
Con l’arrivo della democrazia e dell’inattesa libertà (il verbo è esatto, poiché democrazia e libertà arrivarono da fuori, non nacquero sul posto) vi fu un po’ di confusione anche nelle tradizioni.
Taluni cantastorie giunsero a scambiare i carnefici con le vittime.
Emblematico fu il caso del “lamento per la morte di Turiddu Giulianu” portato in giro dal bravo Cicciu Busacca che, forse involontariamente, contribuì ad accreditare, agli occhi dei contadini, la favola del brigante buono anche se a Portella aveva fatto strage di tanti di loro. 

5.. A Giancaxio, il cinema fu la vera rivoluzione, poiché rompeva la cappa opprimente d’ignoranza e di rassegnazione che, per secoli, aveva informato e nutrito la cosiddetta “cultura contadina”.
Una bella invenzione dei furbetti dei piani alti del potere che, sotto la scorza della cultura, brigavano, anche con le parole, con le tradizioni, per mantenere schiavi popoli interi.    
Il cinema sconquassava il vecchio mondo e ne apriva altri sconosciuti; faceva sognare, fantasticare, viaggiare, conoscere altre città, altra gente.
C’erano i cinegiornali che illustravano il fervore e i progressi della “ricostruzione” economica della nazione. E poi i colossal di guerra e di storia antica, le avventure di Zorro, di Tarzan.
Il cinema, non Cristoforo Colombo, ci fece scoprire l’America.
Soprattutto quella “bona” cioè gli Usa così detta per distinguerla dalle altre Americhe centro-meridionali, evidentemente non buone.
Le “americanate” (western, drammoni d’amore, le comiche di Stanlio e Ollio, i polizieschi) ambientate fra New York, Chicago e Los Angeles ci trasportavano in mondi nuovi, scintillanti verso i quali, da Giancaxio, molti erano partiti e altri erano pronti a partire.
Il signor Gianni proiettava quello che passava il convento ossia il distributore di Agrigento. La signora Tanina stava alla cassa. I prezzi dei biglietti oscillavano fra le 20 lire (adulti) e 10 (per donne e bambini). Alle donne era concesso lo sconto per incoraggiarne la frequentazione. Solitamente la sala era affollata soltanto da uomini adulti e rumorosi ragazzini.

6… Rare le donne che andavano al cinema (cinamu) e sempre in compagnia del marito o di altro intimo congiunto. Il giorno preferito era la domenica di prima serata nella quale il signor Gianni proponeva  una pellicola rasserenante e divertente: una comica di Totò o un drammone strappalacrime con Rossano Brazzi, Amedeo Nazzari, Anna Magnani.
I film un po’ osé o di pura violenza li dava nei giorni feriali. 
Il cinema era anche la scoperta della vamp cosciona, dei baci appassionati, dei tradimenti…
L’uomo di Giancaxio, gli stessi i ragazzini scoprivano così una donna nuova, bella, conturbante e disinibita che nemmeno in sogno potevano immaginare.
Sì, perché per manifestarsi anche i sogni hanno bisogno di un modello cui ispirarsi.
E nel nostro immaginario collettivo non esisteva un modello femminile così fascinoso ed attraente.
Dopo un’ora e mezza di proiezione, si usciva dalla sala con la testa confusa, in preda a un turbinio di ardori sessuali che non si sapeva come, e dove, andare a sfogare.
Il cinema, insomma, ci fece scoprire un altro universo femminile da cui si originò l’impietoso confronto fra le donne nostrane, modeste e litigiose, e le favolose bellezze di Hollywood e di Cinecittà che tanti dissidi ingenerò nelle famiglie. 
Le mogli, sfatte dal lavoro e dalle privazioni, non capivano cosa stesse succedendo ai loro mariti, improvvisamente, divenuti esigenti e lamentosi.
Nei suoi infuocati sermoni, il prete indicò nel cinema la causa di tale scompiglio; quei palermitani avevano portato lo scandalo che minava la pace e l’unità delle famiglie.
Le afflitte donne che dal cinema erano escluse non potevano, anche a volerlo, imitare quelle vamp che turbavano i mariti, i quali, non trovando in casa la soluzione, ripresero la via del casino ora sostituito con i postriboli di via Gallo.

7... Nella tarda mattinata, il signor Gianni rientrava dal capoluogo, a bordo della sua “Vespa” grigio perla, con le “pizze” e la pubblicità.
Dopo pranzo, scendeva nella via, sorridente e speranzoso, per esporre sulla parete esterna della sala i manifesti (uno piccolo, l’altro formato “elefante”) inchiodati su due riquadri in faesite.
Noi attendavamo impazienti di apprendere per primi il titolo e il cast della nuova programmazione e un po’ fantasticare sulle foto che lasciavano intravedere le più belle avventure.
Potevamo farlo giacché noi, ragazzini delle elementari, eravamo il primo pubblico che sapeva leggere e un po’ anche scrivere.
Ogni sera un nuovo titolo. Solo il sabato e la domenica il signor Gianni proponeva la stessa pellicola; solitamente un colossal o un molto lacrimevole drammone che attiravano le famiglie al gran completo.
Ci premeva sapere i nomi del cast, soprattutto “u picciottu” (il protagonista maschile) e “a picciotta” (la protagonista femminile), per informarne i “grandi” al loro rientro dalla campagna.
La domanda era sempre uguale: “Chi cinamu fannu stasira? Cu ci travaglia?…”
Con il verbo “travagliari” i nostri contadini equiparavano il ruolo dei protagonisti di quelle scintillanti pellicole al loro lavoro ingrato e massacrante.
Il nome del “picciottu” era evidenziato sul manifesto a caratteri cubitali e con una foto, perciò era agevole individuarlo. Qualche problema insorgeva quando nel film c’era un co-protagonista.
Chiariva tutto il signor Gianni in persona il quale s' improvvisava critico cinematografico e ci propinava, nella sua gradevole parlata palermitana, commenti sempre positivi ed invitanti:
“Una cannonata, ragazzi! Ditelo a casa, mi raccomando!”
A quei tempi, nonostante fosse stata sperimentata la terrificante bomba atomica, era ancora il cannone l’arma più potente. E, dunque, cannonate a destra e a manca.

8... Tiravano assai i film di guerra, di battaglie memorabili e crudeli, di stragi fra bande di gangster, di pistoleri, di pugni e ossa spezzate. Insomma, sangue a fiumi e prepotenze a volontà per le nostri menti sgomenti e divertite.
Le “sparatine” divennero così familiari che la gente scambiò per western l’unica sparatoria (vera) svoltasi nella piazza del paese. C’era un uomo a terra crivellato, ma tutti pensarono all’intrepido  John Wayne, ai “coiboi” del signor Lo Cascio.
Alcuni attori interpretavano ruoli fissi pertanto era facile prevederne le azioni e gli esiti.
Amedeo Nazzari era sempre l’eroe positivo, Paul Muller quasi sempre l’odiato “traditore”.
Sì, perché nel film ci dovevano essere, e quasi sempre c’erano, uno o più eroi e un “traditore”, come  nella vita reale o immaginata.
I personaggi del cinema entrarono nella nostra vita, nel nostro immaginario. Ognuno s’identificava con il suo attore preferito e ne imitava le gesta anche le più spericolate.
Si restava incantati davanti all’abilità del “picciottu” che scalava la ripida parete di un castello, di una roccia a strapiombo sul mare.
Nessuno ci aveva informato che nella rischiosa scena l’attore era sostituito da uno stuntman.
A furia d’imitare, nasceva l’atteggiamento. Si finiva per far parte di un catalogo umano che si definiva secondo i ruoli cinematografici prediletti.
Per indicare un giovane aitante, coraggioso si diceva “uno spadaccino di Francia, un moschettiere”;
un uomo forzuto era “Ursus” o “Ercole”. E poi tanti “Carnera”, “coboi”.
Rossano Brazzi, tombeur des femmes, era l’idolo da tutti amato e anche un po’ invidiato.
In genere, il film non finiva in sala, con quell’amaro “the end”, ma si replicava fuori, nei giorni seguenti. Le pellicole avevano, infatti, una coda che si allungava fin dentro le botteghe del sarto, del barbiere, del sellaio e così via. Nelle piovose serate d’inverno, in questi luoghi privilegiati della socialità si raccontava, si commentava il film della sera prima, a beneficio di quelli che non l’avevano veduto.
Chiodo scaccia chiodo. Così il cinema stava progressivamente sostituendo, anche dentro le botteghe artigiane, il ruolo dei poeti dialettali e degli affabulatori, le loro improvvisazioni e le schermaglie poetiche, i loro lenti racconti di guerra e d’emigrazione.
Un esercizio collaterale nel quale ognuno re-interpretava le sceneggiature secondo il suo personale temperamento, adattandole alle circostanze e all’uditorio.
Si enfatizzavano le azioni più cruente per impressionare, col sangue, le menti dei più semplici o le spacconate più stupide per suscitare ilarità.
Nelle scene d’amore scattava una sorta di autocensura. Per intrinseco pudore e per non scandalizzare i ragazzini.
Allo scabroso episodio solo un accenno, lasciando all’ascoltatore la facoltà d’interpretarlo, d’immaginarlo.
Le trame dei film più innocui erano raccontate anche in casa, ai piccoli e alle donne, usando tutti gli accorgimenti per non turbare le loro menti impreparate.
Insomma, la pellicola continuava a girare, a essere “proiettata” negli anfratti più reconditi del borgo. Così, i personaggi del cinema divennero popolari, noti anche a chi non li aveva mai visti recitare.
Nulla si sapeva dei sentimenti delle donne. Le poche che andavano al cinema non potevano esternarli in pubblico, poiché l’identificazione con un’attrice famosa le avrebbe bollate come donne di facili costumi. E addio matrimonio.       
  
9... Per tanti di noi, soprattutto ragazzini e giovani, il cinema era diventato un bisogno necessario, come il pane e l’acqua. Non volevamo perdere una pellicola. Ogni sera lo stesso problema: trovare le venti lire del biglietto o qualcosa di sostitutivo da barattare.
Facevamo salti mortali per racimolare la fatidica cifra, ma non sempre gli sforzi erano coronati dal successo.
Si piativa in casa presso le madri che, poverette, non potevano. Indi si andava dalle zie, dalle nonne e qualcosa si grattava.
In casi estremi, si ricorreva anche a vendite clandestine di prodotti sottratti dal magazzino familiare: un chilo di grano o di fave, una pettorinata di candido e morbido cotone.
L’assalto non risparmiava nemmeno la cucina dove, ogni tanto, spariva un pentolino di rame o d’alluminio che vendevamo, per poche lire, a mastru Caliddru, il rigattiere, che vivacchiava di questi miserabili commerci.
Talvolta, anche un uovo si poteva barattare per un biglietto d’entrata, però solo a proiezione iniziata.
La signora Tanina era severa, difficilmente s’inteneriva.
Dall’abbaino della proiezione, il signor Gianni osservava la scena con preoccupazione giacchè temeva che il rifiuto della moglie avrebbe indotto i suoi giovani clienti a riversarsi al cinema improvvisato e casto dell’oratorio.
Sì, perché il prete, temendo che i suoi parrocchiani, specie quelle ciurme di bambini, si avviassero sulla via della perdizione, aveva comprato, in quattro e quattr’otto, un proiettore e ogni sera dava un film delle Paoline.
L’entrata era gratis, per tutti quelli che frequentavano regolarmente il catechismo.
Nonostante la pelosa gratuità, pochi guardavano le pellicole dell’arciprete: troppo caste e noiose.
L’oratorio era dirimpetto al cinema del signor Gianni, a poco più di 50 metri.
Le due sale si fronteggiavano, si sfidavano all’ultimo spettatore.
Ogni sera, la stessa scena, la stessa attesa. Il prete si rodeva il fegato nel vedere quei ragazzini dietro la porta della “palermitana” che imploravano per farsi ammettere in quel postribolo.
Non aveva dubbi: il cinema è un’arte malefica, sovvertitrice che devia e corrompe la gioventù ed anche quegli zoticoni con i piedi incretati. Il cinema, con tutte quelle bagasce in celluloide, stava svuotando le chiese.
Prima di dare il via alla proiezione, il prete attendeva l’esito delle nostre trattative con la signora. Sperando che qualcuno, indignato, tornasse nella casa del Signore. Ma solo raramente questo accadeva.

10... D’altra parte, il signor Gianni, più tenero di cuore o forse più calcolatore della moglie, pensava che “Ogni lassatu è pirduto” e che conveniva prendere quel poco che i ragazzini offrivano.
 “State boni e muti, ci parlo io con la signora”.
Quella, gelosa del suo ruolo, non amava che il marito s’intromettesse negli affari di cassa. Anche perché era convinta che con i suoi rifiuti avrebbe insegnato a quei piccoli villani le buone maniere, fra le quali quella di pagare il biglietto per intero.
La signora veniva dalla capitale e mal sopportava quella baraonda di petulanti dietro la porta. “Signù, signù mi fa trasiri cu deci liri? Dumani ci portu u restu. Signù mi fa trasiri cu du ova? Sono frischi, frischi, di stamatina.”
Ogni sera la stessa litania. Non ne poteva più e ci scaricava una sequela di colorite parolacce palermitane che, certo, non esaltava la sua signorilità.
Alla fine, quasi sempre, la porta si apriva e correvamo a sederci per terra, davanti le prime file.
Qualche volta, la cassiera s’impuntava e non ci ammetteva nella sala. Per noi, era questo il lato più triste del cinema. L’ultima speranza era affidata al sopraggiungere di un parente ritardatario, stracarico di pruviglia (cipria) e brillantina, che t’interrogava: “A tia chi fa ccà?”
Lo intuiva ma gli piaceva umiliarti per, poi, accoglierti fra le spire della sua magnanimità.
“Nenti, mi mancanu cincu liri”
“Veni ccà, veni cu mia ca ti fazzu trasiri”.
Correvi verso di lui, cogli occhi bassi come un cane bastonato, ma intimamente rinfrancato perché sapevi saresti entrato.
Poteva capitare, addirittura, che ti offrisse il biglietto interamente a sue spese e così ti restavano in saccoccia le lirette per una gassosa che vendeva Bastianazzu nell’intervallo.
Il film e la bibita, era questo il massimo binomio cui poteva aspirare un ragazzino.
Quando si restava fuori erano dolori, struggimenti.
Sentivi scorrere la pellicola, il suo fruscio tipico, le note della colonna sonora che filtravano da sotto il portone. Una sorta di supplizio degli esclusi. Non capivi perché non potevi esser dentro, con i tuoi amici già sotto il telone e con cogli occhi sbarrati.
Durante la proiezione, specie nelle prime file, avvenivano le cose più bizzarre.
Gli spettatori interagivano con le diverse scene.
C’era chi, atterrito, serrava gli occhi per non assistere al truce assassinio e pregava il vicino di avvisarlo quando il cadavere sarebbe sparito; chi si esaltava all’”arrivo dei nostri”, solitamente la cavalleria, e scoppiava in un urlo liberatorio più forte di quello degli assediati nel fortino; chi si lasciava trasportare dalla passione d’amore dei protagonisti e l’accompagnava con un movimento frenetico della mano…
C’erano anche quelli che, per protestare contro una soperchieria cinematografica, tiravano, all’urbina (da orbo), un fiotto di saliva contro gli spettatori che provocava le urla inferocite del malcapitato. Anche questo era il cinema, a Giancaxio. Una copia di quello che abbiamo visto in “Nuovo cinema Paradiso”, il bellissimo film di Giuseppe Tornatore. *

11... L’esercizio andava bene. La sala era quasi sempre piena. La famigliola del signor Lo Cascio crebbe di numero. I ragazzi presto s’integrarono a scuola e nel paese. Li vedevamo con una punta d’invidia perché non dovevano pagare il biglietto d’entrata e perché figli del “cinema” ossia del signor Gianni che per noi era il cinema in persona.
Qualche problema cominciò ad avvistarsi agli inizi degli anni ’60, con l’avvento della televisione che a Giancaxio fece il suo timido ingresso nelle case dei pochi benestanti e di qualche impiegato, che comprava a rate.
Chi non poteva permettersi un televisore andava dai parenti o dai vicini, dove si entrava senza biglietto e senza uova.
Soprattutto il sabato e la domenica sera c’erano sempre un programma di canzoni o uno sceneggiato che incatenava gli spettatori per mesi e mesi.
Per altro, i programmi della Tv erano rassicuranti per grandi e piccini. Non potevano esserci sgradite sorprese. Così, anche le donne poterono accedere allo spettacolo, furono ammesse alla platea televisiva. La Tv provocò una sorta di rivoluzione culturale di massa.  
Con la diffusione del televisore (anni ’70) per il cinema iniziarono i veri problemi, specie per le sale di campagna.
La crisi bussava alle porte. Tuttavia, il geometra Lari non udì il suo impeto, sommesso ma inesorabile, e decise di aprire un' altra sala giù al Castello.
Un “signor cinema”- si vantava Lari- a due piani: sotto un’ampia platea popolare con sedie di ferro fissate al pavimento per evitare che fossero usate come “corpi contundenti” durante le frequenti risse, e sopra una comoda tribuna, dotata di poltrone di legno, per le famiglie benestanti.
La pubblicità era eloquente e polemica: “Finalmente un vero cinema a Giancaxio: il cinema Castello. Spettacoli per grandi e piccini”
Il signor Gianni, indignato per quella pubblicità sleale e supponente, rispose con forti sconti e con una programmazione più vivace, talvolta, addirittura, osè.
La signora Tanina malediceva, da mattina a notte fonda, quel geometra e il prete che lo finanziava.
Fra i due locali si scatenò una spietata concorrenza, senza rendersi conto che il vero nemico comune era quella scatola magica che entrando nelle case stava svuotando le sale.
Nel giro di un paio d’anni, chiusero entrambi. Così finì la breve storia del “cinema” a Giancaxio.
Sono passati quasi sessant’anni e nessuno l’ha più resuscitato.
Per il signor Gianni fu un vero dramma: rimase senza lavoro e con una famiglia numerosa a carico.
Fu costretto a cambiare mestiere e ad abbandonare il paese, definitivamente. Solo la signora Tanina,  che più lo disprezzava, vi è tornata. Da morta però. Perché ad Agrigento non si trovò per lei una confacente sepoltura.

                                      Agostino Spataro

*. A proposito del film del premio Oscar di Bagheria mi resta una piccola curiosità. Il paese non tanto immaginario (Palazzo Adriano) di Tornatore si chiama Giancaldo, mentre il nostro di chiama Giancaxio ed è l’unico, in Sicilia, che può vantare una quasi omonimia, una somiglianza che va ben oltre la comune radice. Differiscono, infatti, soltanto le tre lettere finali (xio e ldo).
Domanda: Tornatore ha inventato il suo Giancaldo partendo dal nome Giancaxio?
Ovviamente, qualunque dovesse essere la risposta, non cambierebbe nulla.
La mia è solo una curiosità di cittadino.

 Joppolo Giancaxio, 15 aprile 2012.


   
  

 




 
       



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venerdì 13 aprile 2012

POR QUE' NOS LLAMAMOS SICILIANOS?


Siciliani in Argentina

“Por qué nos llamamos sicilianos"?

de Agostino Spataro
Les habrá sucedido también a ustedes preguntarse ¿por qué nos llamamos sicilianos? o ¿por qué nuestra isla se llama Sicilia y no Trinacria o Sicania?
Las respuestas son fáciles. “Sicilia” y “sicilianos” derivan de “sículos” o sea del nombre de un pueblo del norte que, alrededor de trece siglos antes de Cristo, se habría ubicado en la parte oriental de la isla y, después de haber derrotado y de algún modo integrado a los ya existentes sicanos (de probable origen ibérico) y los elimos, impusieron sus costumbres y leyes a toda la isla y por lo tanto también su nombre.
Ésta, en síntesis extrema, es la “historia”. Sin embargo nunca nadie aclaró con precisión el origen geo-étnico de este pueblo que impuso su nombre a Sicilia y a sus habitantes.
Un nombre fuerte, fascinante, visto que pudo borrar el precedente (¿Trinacria?) y a sobrevivir a las sucesivas dominaciones, algunas muy potentes y longevas como lo fueron los griegos, romanos, bizantinos, árabes, normandos-suevos, franceses, españoles, etc.
Hasta nuestros días.
Extrañamente, conocemos origen e historia de los principales pueblos dominadores que pasaron por Sicilia, pero no exactamente, la de los sículos que nos dieron el nombre.
La historiografía, antigua y moderna, concuerda con el hecho que “los sículos” llegaron a la isla provenientes desde el norte. ¿Pero de cuál región del norte? ¿Del norte pre o post alpino?
Sobre estos interrogantes las hipótesis se bifurcan: una sostiene que somos “lígures”, o sea provenientes de las regiones del noroeste; otra que provenimos de poblaciones ilíricas. Otras en cambio amplían el campo de las suposiciones agregando la posibilidad de pueblos de regiones del Cáucaso y de pueblos de ultramar.
Hipótesis todas sugestivas y complejas que esperamos los historiadores deseen investigar para llegar a una conclusión unívoca y exhaustiva.
A nosotros, que no somos historiadores, nos queda recurrir a las fuentes conocidas (de Tucídides a Diodoro Sículo, de Ignacio Scaturro a Lorenzo Braccesi, etc.) las cuales grosso modo, concuerdan con el hecho que los “sículos” provengan del área ilírica-balcánica y llegaron a Trinacria expulsados por otros pueblos que se establecieron en las regiones del centro-norte de la península itálica.
Como decir: ¡en el fondo hay lugar!

Los Sículos en Bolzano
Un tourbillon de hipótesis y conjeturas vinieron a mi mente mientras leía en la web una noticia, por demás, sorprendente: “El Consejo Nacional de los Sículos visitan Bolzano… para “conocer el modelo de la autonomía local…”
Confieso que el título me hizo saltar de la silla del café-internet de Budapest donde me encontraba. Frente a un anuncio así de claro e inesperado no sabía qué pensar.
¿Quieres ver – me dije – que en mi ausencia de Sicilia hicieron la revolución y que en Palermo llegó la onda de la “primavera árabe” y desmantelaron la Asamblea Regional y la Región e instauraron un gobierno transitorio llamado el “Consejo Nacional de los Sículos”?
¿La revolución en Sicilia? Conociendo cómo estaba la situación cuando me fui, quedé muy desconcertado.
Tal vez se podría tratar de un grupo de políticos sicilianos de buena voluntad que viajaron a la ciudad de Bolzano para aprender el arte del buen gobierno.
Pero esto también me pareció algo improbable: difícilmente la clase dominante siciliana iría a Bolzano a aprender de aquella virtuosa gestión de la Autonomía que hizo del Alto Adige una de las regiones más ricas y avanzadas en el plano social de toda Europa.
Ir a Bolzano sería una humillación, una admisión del fracaso al que arrastraron a nuestra Región.
Continuando la lectura, descubrí que los “sículos” de los que hablaba el artículo no eran los de Sicilia, si no los representantes de una consistente minoría húngara que, desde hace varios siglos, vive en Transilvania, en el norte de Rumania.
Una singular homonimia nunca investigada, totalmente desconocida.
Las dos comunidades, en efecto, no tienen ninguna relación entre sì aunque como veremos, podrían tener un origen étnico-antropológico común.

Szekelorum, Siculorum, Sículos
Es en este punto en el que quiero detenerme, sin pretender demostrar nada, pero sólo para mostrar, exponer, los resultados de algunos descubrimientos bibliográficos que refuerzan la hipótesis del probable origen común entre los sículos de Transilvania y los de Sicilia.
Nada sensacional ya que la reconstrucción de tales investigaciones queda anulada por las acentuadas lagunas que existen sobre los orígenes de nuestros “sículos” y de la oscuridad que envuelve la existencia de los otros.
De todo esto algunos deducen, erróneamente, que los únicos sículos en el mundo somos nosotros los sicilianos.
En cambio no es así. No sólo porque hoy, leemos sobre un “Consejo Nacional de los Sículos” de Transilvania si no también por una serie de indicios que algunos autores ya señalaron.
En efecto, alguna vaga noticia de su presencia en aquella montañosa región rumana lo había descubierto también durante una investigación que realicé para conocer el significado del apellido de mi suegra húngara ya fallecida: Ilona Szekely, cuya familia es originaria de la ciudad de Torda en Transilvania.
Sucedió meses atrás en una librería-anticuario de Budapest, cuando tuve entre mis manos un antiguo tomo en latín “Geographica globi terracquei Synopsis” del celeberrum geographo Hubnero (edición: Cassovlae Typis Academicis Soc. Iesus…) donde el autor afirma, sin dudar, que Szekely significa “Sículos”. Escribe, por lo tanto: “In Transilvania Siculorum, seu Szekelorum…à Szekely comitiorum loco habetur Warfalea castellum….”
En familia el descubrimiento un poco divierte, ya que mi esposa, venida en Sicilia como orgullosa descendiente de los hunos de Atila, en realidad se encontró en una comunidad de lejanos cosanguíneos.
En suma, buscaba el significado del apellido de una pariente y encontré una confirmación indirecta de la existencia de un pueblo que lleva el mismo nombre que el nuestro.
Continuando la investigación, encontré otro libro (en francés) “Manual de la geographie” del eminente profesor geógrafo Louis De Foris (edición: Chez Jh. Maronval – Paris, 1831) en el cual afirma: “La Sicile, appellé d’abord Trinacrie à cause de ses trois promontaires les plus remarquables… tire son nom actuel des Sicules, peuple illyrien, qui y passarent de l’Italie dont elle est separée par le phare de Messine…” (Sicilia primero llamada Trinacria a causa de sus tres remarcables promontorios… su nombre actual deriva de los sículos, pueblo ilirio que llegó desde Italia pasando el estrecho de Messina)
Para ser breve cité sólo estos escuetos pasajes, omitiendo otras consideraciones que refuerzan las sugestivas hipótesis. A mi parecer, ahora que sabemos de la existencia cierta de esta comunidad, quizás esta vez la investigación se reanude sobre la base de una colaboración histórica y científica entre los sículos de Transilvania y los sículos de Sicilia.

Agostino Spataro
imagen extraída de www.tanogabo.it que agradecemos (lunedì 9 aprile 2012)

 



mercoledì 11 aprile 2012

IL COMPAGNO ANDREA CAMILLERI di Agostino Spataro




IL COMPAGNO ANDREA CAMILLERI

di Agostino Spataro

E’ a tutti noto che Andrea Camilleri continua a dichiararsi comunista, orgogliosamente.
Addirittura, nell’intervista pubblicata nelle pagine precedenti, rafforza la sua asserzione:
“Sono stato un comunista vero e non rinnego nulla del mio passato... marxista da sempre,
da quando sono nato e non lo sapevo”.
Quello che, forse, molti non sanno è che egli vive questa appartenenza
come militanza attiva, appassionata e sofferta come tanti, con umano trasporto.
E’ questa la scoperta che ognuno può fare leggendo in questo “speciale” di aprile l’ampio
estratto della video-intervista che il “papà” del commissario Montalbano ha rilasciato a
Tonino Calà e a Michele Morreale, in occasione della Festa de l’Unità di Mussomeli.
Nulla di sconvolgente, solo una piacevole chiacchierata nella sua casa di Porto Empedocle
fra compagni della stessa terra, accomunati, oltre che dall’idea, da quell’umanesimo
provinciale che è poi la dimensione più sana e pulsante della realtà del partito.
Purtroppo, passando dal video allo scritto si perdono gli effetti più accattivanti che sono
la pastosa parlata e l’incontenibile gesticolare dello scrittore. E non si tratta di un
“altro” Camilleri o del suo doppio, ma dello stesso scrittore che, negli ultimi anni, abbiamo
visto letteralmente subissato da uno strepitoso successo editoriale, in Italia e all’estero.
Un Camilleri vero, dunque. Come ho potuto costatare, in quella tiepida sera di settembre
a Mussomeli, insieme a centinaia di persone che, a turno, si sono riunite intorno
al monitor per ascoltare l’illustre relatore, arrivato in quello stand... via etere.
Un’atmosfera un po’ surreale, animata dal faccione pacioso di Camilleri che ragiona
sopra un vasto catalogo di temi scottanti: dal successo dei suoi libri presso il pubblico
alla scarsa fortuna incontrata presso i critici, anche di sinistra; dalle guerre che insanguinano
il mondo ai dilemmi originati dalle religioni e dai conflitti che, spesso, si scatenano in loro nome.
Accenna anche ai personaggi emblematici (non solo Montalbano) dei suoi romanzi,
alcuni dei quali hanno preconizzato l’involuzione politica e morale che funesta la Sicilia.
Lo scrittore conferma il suo radicamento alla terra natale, alla provincia di Agrigento,
certo sfigurata da tante ingiustizie, ma (o forse per questo) prolifica di scrittori di grande
spessore e tiratura (Pirandello, Sciascia, Camilleri, ecc).
Qui, infatti, non c’è da essere molto immaginifici poiché la realtà stessa è immaginazione
e rappresentazione.
Tuttavia, il tema centrale, e più coinvolgente, è quello relativo al suo impegno politico e civile: il
Partito (con la p maiuscola), la sinistra, l’Ulivo, gli errori e le speranze di cambiamento;
ed anche i sindacati, i girotondini, la gente e i loro drammatici problemi.
Le sue notazioni critiche non sono frutto di una lamentazione senile o di nostalgico rimpianto,
ma scaturiscono da un ragionamento, da un pacato e suadente argomentare venato da uno
spiccato spirito di lotta.
Appare evidente che il tema lo tocchi intimamente. Il suo volto, ora rubicondo e un po’ tirato,
sembra bucare lo schermo per andarsi ad “assittari supra na seggia” di fronte alla massa che,
seppure stordita dai fragori di musiche profane e da un viluppo di scie appetitose,
si accalca per non perdersi neanche una sillaba.
Parla e fuma il compagno Camilleri, una sigaretta dopo l’altra.
Parlano anche le sue mani inquiete e gli occhi vigili dietro le lenti chiare.
Ogni tanto un sorriso spezza la sequela di movimenti minimi che, in filigrana, gli attraversano il
viso, tradendo l’amarezza per gli “errori compiuti dal Partito che - sottolinea - ho elencato,
ad uno ad uno, nella prefazione, richiestami da Giovanni Berlinguer, per il libro del correntone
dei Ds... dei quali il principale è stato quello di operare una frattura fra la base e la dirigenza...”
(il libro è quello che raccolse gli interventi del correntone nel Congresso della Quercia di Pesaro
nel 2000).
Così come fra partito e sindacato, si è verificato un distacco “grandissimo e tremendo”
che ha spezzato il legame con i “nostri lavoratori”.
Per lo scrittore il problema è, dunque, la dirigenza che continua ad operare in “totale distacco”
dalla base e dai bisogni della gente. Da qui, anche, l’avvicinamento ai girotondini
perché “erano un pungolo verso i nostri politici, erano un additivo per fare agire meglio il Partito”.
Per fortuna, la situazione sta cambiando (“per implosione del Polo non per merito nostro”) ed è
possibile tornare a vincere, “purché si eviti, da parte di taluno, di parlare a vanvera...
Altrimenti perdiamo le coordinate”.
Ecco, dunque, un Andrea Camilleri inedito, critico ma anche fiducioso nel cambiamento
della situazione politica italiana.
Uno scrittore al quale lo scrivere – confessa– costa fatica, che si definisce “un cantastorie”
e un gran privilegiato dalla vita.
Un uomo anziano al culmine del successo che ancora s’indigna contro le ingiustizie e si commuove
di fronte alla lettera inviatagli da una giovane lettrice, malata terminale.
Dall’alto delle sue 10 milioni di copie vendute, potrebbe snobbare,come fanno tanti,
i problemi della gente e le vicissitudini della politica.
Invece si è presentato al pubblico della Festa de l’Unità di un piccolo centro della Sicilia interna,
non come un divo ma come un compagno che brucia perché ama la sua terra e il suo partito.
Gli scrittori, solitamente, lasciano parlare i loro libri.
Qui ha parlato Camilleri con parole semplici, efficaci e taglienti all’occorrenza,dettate da
una straordinaria carica di umanità. Merce rara di questi tempi che non trova riscontro nell’agire
politico di certi dirigenti che si mostrano interessati soltanto al loro personale destino elettorale.
Insomma, una bella lezione di politica ed anche di umiltà e solidarietà.
 AGOSTINO SPATARO
* giornalista, già deputato
del Pci, è direttore di
Informazioni on line dal
Mediterraneo (www.infomedi.it)

G E N N A I O 2 0 0 5

GABRIELE COLONNA: IL DUCA IN CAMICIA ROSSA


domenica 8 aprile 2012

Leonardo Sciascia e il PCI di Agostino Spataro


LEONARDO SCIASCIA E IL PCI

di Agostino Spataro

1.. Il 20° anniversario della morte di Leonardo Sciascia rischia di passare quasi inosservato. Il 2009 doveva essere l’anno sciasciano, specie in Sicilia. La visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla tomba dello scrittore, a Racalmuto, lasciava ben sperare.
Purtroppo, così non è stato per ragioni che ai più restano ignote.
Anche per novembre, il mese della ricorrenza, non si annunciano eventi importanti.
Questo passa il convento, anzi il governo. C’è da sperare che qualcuno non pensi di scaricarne la colpa sulla concomitanza con un altro, memorabile ventennale: quello del crollo del muro di Berlino che cade 11 giorni prima della morte di Sciascia.
Come dire, oltre al danno, la beffa irriverente della morte che si è preso lo scrittore a 68 anni e per giunta 9 giorni dopo lo storico crollo. D’altra parte, nessuno può decidere né quando nascere né quando, e come, morire. Solo ai suicidi è concesso il secondo, tragico “privilegio”.  

2.. Ma lasciamo questo infausto preambolo e andiamo ad alcune cose, che ancora ricordo, riguardanti il rapporto di Leonardo Sciascia con il Pci che, prima del partito radicale, fu per lui la forza politica di riferimento.
Con questo partito, specie a livello siciliano, lo scrittore ebbe, una relazione lunga e intermittente che si romperà nella seconda metà degli anni ’70 quando, nel volgere di quattro anni, (1975-79) passò da consigliere comunale di Palermo eletto nelle liste del Pci a deputato radicale.
Discutendo con lui, a più riprese, ho cercato di indagarne i motivi, almeno quelli più connessi con taluni passaggi importanti della vita del Pci isolano.
Nei miei appunti non c’è molto, perciò scrivo quel che rammento (magari rischiando qualche imprecisione e omissione), prima che il ricordo svanisca fra le nebbie della memoria.
Può darsi che qualcuno non apprezzerà o se ne lagnerà. Pazienza. Posso, comunque, assicurare che  questo ricordo corrisponde alla realtà dei fatti vissuti o raccontatemi; in ogni caso non è esaustivo del rapporto più complesso fra Sciascia e il Pci che, forse, andrebbe meglio indagato.
L’anniversario potrebbe essere l’occasione per stimolare gli studiosi ad avviare la ricerca anche su questo versante della personalità dello scrittore che resta poco conosciuto, specialmente dalle nuove generazioni.  

3.. Premetto anche che non sono stato “amico” di Sciascia  nel senso che con lui non ebbi mai un’intimità, una frequentazione intensa sul piano personale.
L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta lo andai a trovare alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto e un’altra volta lo vidi a Porta di Ponte, ad Agrigento, mentre, con la busta della spesa in mano, usciva dalla Standa con a fianco la moglie. Prendemmo un caffè al bar Milano.
Di più mi è capitato d’incontrarlo alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale.
Nelle lunghe attese si rifugiava nella sala dei giornali. Sebbene fossimo colleghi, lo salutavo con un rispettoso “professù” come lo chiamavano i compagni di Racalmuto.
Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città lontana.
Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e indietro, nel corridoio dei “passi perduti”. Sciascia, talvolta, si appoggiava al bastone anche se apparentemente sembrava non averne bisogno.

4.. Prima che politico, il mio approccio con lo scrittore era quello del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Tuttavia, quasi mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere.
Eravamo nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle quali, per altro, non sempre si era d’accordo. Del resto, eravamo deputati di due partiti diversi e sovente in polemica. Tuttavia, ero molto interessato a conoscere il suo punto di vista di scrittore su determinate questioni politiche.
L’elezione a deputato non gli aveva fatto superare del tutto il disagio verso la politica attiva.
Nei suoi scritti Sciascia aveva mostrato un buon fiuto politico, ma non riusciva ad adattarsi al ruolo di parlamentare. O, forse, non desiderava adattarvisi. Credo che sia venuto in Parlamento solo per far parte della Commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.

5.. Leonardo Sciascia, pur essendo nativo di Racalmuto, centro minerario dell’agrigentino a cui rimase legato per tutta la vita, non ebbe molte frequentazioni col Partito e i dirigenti della provincia di Agrigento.
Di più frequentò alcuni dirigenti e intellettuali comunisti di Caltanissetta (Giuseppe Granata, Emanuele Macaluso, Calogero Roxas, Gino Cortese, ecc) dove studiò e visse per un certo tempo. 
Tuttavia, per quanto a me risulta, la Federazione comunista di Agrigento lo interpellò per averlo candidato, anche per il Senato.
Sciascia, pur dichiarando una certa affinità d’idee col Pci, rifiutò dicendo che desiderava continuare a scrivere senza essere distratto dall’attività politica verso la quale non si sentiva portato.

6.. La sua “discesa in campo” avvenne nel 1974, in occasione della campagna per il referendum per  l’abolizione della legge sul divorzio. Una battaglia importante per i diritti civili e di libertà molto cari allo scrittore il quale decise d’impegnarsi in prima persona nel fronte del “No” (pro-divorzio) che in Sicilia non era, sulla carta, maggioritario.
Ad Agrigento eravamo ancor più preoccupati poiché in questa provincia periferica era forte l’influenza politica e culturale della Dc e della Chiesa cattolica.
Sciascia non si limitò a firmare qualche appello, ma diede una mano in concreto, partecipando a conferenze e incontri pubblici che, credo, in altre circostanze avrebbe evitato. Ad Agrigento tenne un’affollata conferenza al cinema Astor. Ricordo che nella città dei Templi gli eventi più rimarchevoli di quella campagna referendaria furono la citata conferenza di Sciascia e la memorabile manifestazione popolare con Enrico Berlinguer. Per la cronaca, nell’agrigentino il “No” vinse alla grande.
L’impegno di Sciascia, di Renato Guttuso e di altri intellettuali di sinistra e progressisti fu decisivo per scuotere il mondo della cultura, dell’Università e della scuola in genere che, per la prima volta, dopo il 1968, si schierava a difesa di una conquista laica, di civiltà, che rischiava di essere travolta.

7.. Dopo la vittoria, per noi si pose il problema di assicurare continuità a questa battaglia di progresso estendendola ad altri campi della condizione civile e sociale siciliana e soprattutto di non disperdere il grande patrimonio di forze intellettuali, anche di tendenza moderata, che sull’onda della vittoria referendaria potevano spostarsi a sinistra.
Per altro, il referendum trovò il partito siciliano nel vivo di un confronto interno, a tratti anche duro, per il rinnovamento dei gruppi dirigenti e del modo di fare politica.
Anche la vecchia struttura, prevalentemente, contadina del Pci siciliano stava facendo i conti col ’68. Non quello importato da Milano o da Roma, ma quello più fecondo esploso, anche per tutto il ’69, nelle università e nelle scuole siciliane.
A quel tempo, (dal 1973) segretario regionale del Pci era Achille Occhetto (inviato in Sicilia da Longo nel 1970, per “punizione” dicevano le malelingue) il quale s’intestò la battaglia del rinnovamento che in alcune federazioni era già iniziata qualche tempo prima e con successo.
Significativa quella che abbiamo combattuto, e vinto, ad Agrigento che culminò nel congresso provinciale del febbraio 1972.
Subito dopo quel congresso, fu sciolto il Parlamento e quindi fummo costretti a correre per preparare le liste e la campagna elettorale.
Per dare un chiaro segnale di rinnovamento anche della nostra rappresentanza parlamentare ponemmo il problema di non ricandidare due compagni di grande prestigio, ma avanti con le legislature: il senatore Francesco Renda e l’on. Salvatore Di Benedetto.
Iniziò la ricerca di nomi alternativi. Per il collegio del Senato formulammo una rosa ristretta fra cui Leonardo Sciascia che, interpellato, declinò l’invito.

8.. Dopo la campagna elettorale del 1972, Achille Occhetto subentrò ad Emanuele Macaluso alla segreteria regionale.
Il cambio si caratterizzò all’insegna del rinnovamento generazionale e del “nuovo modo di fare politica” in Sicilia. Sotto accusa andò il cosiddetto “notabilato rosso” ossia una serie di personalità carismatiche, di capipopolo, affermatisi durante le lotte del dopoguerra, che il tempo aveva logorato. Per altro, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni esterni, suoi collaboratori ai tempi della Federazione giovanile comunista italiana.
L’intento era quello d’innestare nel gruppo dirigente siciliano, già in fase di rinnovamento, un gruppo di giovani provenienti dal Nord.
Una folata di “vento del nord” per modernizzare, cambiare gli assetti dirigente del Partito in terra di mafia e di predominio della Democrazia cristiana.
E così, oltre a Michele Figurelli già in loco, giunsero, fra gli altri, Valerio Veltroni (fratello di Walter) che dalla segretaria regionale sarà catapultato a Trapani, e i toscani Giulio Quercini segretario a Catania e Alessandro Vigni segretario a Enna.
Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- la vide di buon occhio, anzi la ritenne necessaria.
Occhetto fece leva su questo suo interesse per avviare, tramite Figurelli e V. Veltroni, un contatto piuttosto intenso con lo scrittore.
Sciascia, dunque, approvò la “calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro,
aveva accumulato alcune perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.

9.. Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre.
Ora a dirigere il Partito c’erano loro, forze nuove, fresche formatesi in altri contesti, nell’alveo delle lotte per la pace  e del movimento studentesco e affermatisi in Sicilia dopo una lotta durissima proprio contro i personaggi verso i quali lui aveva riserve.
L’idea che si voleva accreditare era quella che nel partito siciliano e negli organismi collaterali fosse in atto una sorta di “rivoluzione culturale” che stava liquidando ogni residua mentalità compromissoria e aperto il Partito alla società civile, agli intellettuali progressisti, agli imprenditori onesti.
Insomma, a Sciascia fu prospettato un mondo nuovo, una sorta di rivoluzione copernicana della politica siciliana.
Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani.

10.. Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista del Pci.
Un bel colpo per Occhetto che era riuscito dove tanti avevano fallito. Quello stesso Sciascia che aveva rifiutato le profferte del Pci per un seggio nel Parlamento nazionale ora accettava di candidarsi per un posto al consiglio comunale di Palermo, insieme a Renato Guttuso e allo stesso Occhetto, capolista. Ovviamente, sarà eletto.
Si parlò di svolta per Palermo, ma nel nuovo consiglio i numeri non promettevano facili cambiamenti. Nonostante la discreta avanzata del Pci, la Dc e il centro-sinistra (di allora) conservavano una solida maggioranza.
Per di più, Sciascia a ogni riunione del consiglio comunale era costretto a bighellonare per ore fra i banchi di Sala delle Lapidi, impacciato e nervoso, in attesa che s’iniziassero quelle interminabili, e spesso inconcludenti, sedute notturne.
Una situazione frustrante che lo porterà, a pochi mesi dall’insediamento, alle dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Lo scrittore, che mesi dopo sarà seguito da Guttuso, motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori d’aula.
Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che l’inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.

11.. Ne parlammo in quelle chiacchierate a Montecitorio. Mi fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato per avvenuto in realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce. Insomma, un po’ millantato dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a Palermo.
E - aggiungo io- per fare di Sciascia un bel fiore all’occhiello da esibire nelle riunioni romane e nei salotti buoni dell’intellighenzia di sinistra.
Lo scrittore riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele Macaluso, anche da Roma, continuasse
a influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo parlamentare all’Ars dove operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta fiducia.
A parte l’amarezza per l’esperienza del milazzismo, citava in particolare l’episodio, verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione tra Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia.
Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte e comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.
Lauricella non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici democristiani gli avevano chiuso la porta in faccia) si rivolse all’uomo di cultura di sinistra, quasi compaesano, che sapeva sensibile ai temi della trasparenza e della moralità pubblica.
Consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziava la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione.

12.. Anche molti fra noi consideravano quella fusione un inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e soci e non avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi giacimenti di salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la costa agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato.
Sciascia prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica.
Vista la sordità dei suoi interlocutori, inviò il memoriale alla segreteria nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui chiedeva un intervento di Roma sul partito siciliano.
Non ebbe risposta. La fusione si fece, con la benedizione anche dei vertici regionali del Pci.
Non cercai riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche perché avendo seguito, da responsabile economico del Pci agrigentino, quella vicenda e i comportamenti dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per vero.
Per altro quella chiacchierata fusione finirà in tribunale. Chi ne avesse voglia potrà consultare le carte del processo, soprattutto, consiglio, le relazioni del prof. Piga, perito della pubblica accusa.

13.. Ma torniamo al percorso politico di Leonardo Sciascia che nel 1979 è pluri - capolista alla Camera per i radicali.
Sarà eletto in più collegi con una valanga di voti di preferenza. Il grande scrittore arriva, dunque, alla Camera nella veste di deputato radicale, accompagnato dalla stima generale anche da parte di tanti esponenti siciliani di quella Democrazia cristiana che lui accusava di contiguità con la mafia e col malaffare.
Confesso che vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi procurava un certo rammarico. Ero convinto che se ci fosse stata più correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento, anche se- vedendolo all’opera - mi persuasi che quella radicale fosse la casacca a lui più appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe diventato un comunista, anche se anticomunista non fu mai.
Nemmeno dopo l’increscioso episodio delle presunte “rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe fatto sui collegamenti delle Brigate Rosse con i servizi di Praga.
Sciascia mi raccontò questa vicenda un paio di volte, in Transatlantico, una prima su mia richiesta e una seconda in uno sfogo contro Guttuso.

14.. Cos’era successo? Secondo Sciascia, in un incontro informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe confidato che, da informazioni in suo possesso, risultava che settori della Brigate Rosse erano in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli al Kgb. La qualcosa, detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi, da taluni sostenuta durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca a eliminare il presidente della Dc per impedire l’attuazione del progetto del “compromesso storico” che avrebbe aperto al Pci le porte del governo.
Com’è noto, tale progetto era stato propugnato da Berlinguer e non condiviso dalle alte sfere del Pcus che temevano un distacco, una deriva “revisionista” del Pci e di altri partiti comunisti europei (Pcf e Pce), impegnati nella svolta dell’eurocomunismo.
Sciascia, troppo preso della vicenda umana e politica di Aldo Moro, sulla quale scrisse un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci.   
Berlinguer smentì su tutta la linea e minacciò querela. Sciascia, invece, confermò e chiamò Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne a trovare in una situazione davvero drammatica giacché doveva scegliere di confermare la parola del segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro prestigioso, o quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di tante battaglie.
Guttuso diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se scelse la verità o l’onorabilità del suo segretario generale.
Mentre raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi parve amareggiato.
Credo che, in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose. Le conseguenze sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica.
 
15.. Ricordo che in quel periodo il suo chiodo fisso era la drammatica condizione della Dc dopo i delitti Moro e Mattarella. 
Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla Noce, pochi giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Gli portai una copia del mio libro “Per la Sicilia”. Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi elencò quattro - cinque malattie di cui soffriva. Soprattutto si lamentò di una fastidiosa cervicale.
Ovviamente, parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo articolo, apparso sul “Corriere della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la tesi, un po’ ardita, della mafia come fenomeno eversivo.
Una mafia che, avendo perduto la protezione della Dc e quindi dello Stato, uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada.
Gli feci osservare che questi delitti potevano essere letti anche come la sfida tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla Sicilia.
Anche la strage di via Carini poteva essere interpretata come una dimostrazione di forza attuata come da prassi. Quando cioè fu chiaro a tutti che il generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una condizione di solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i poteri speciali promessi.
Gli riferii le “difficoltà”, soprattutto di carattere giuridico, prospettatemi dal ministro dell’interno, on. Virginio Rognoni, a proposito dei poteri non attribuiti a Dalla Chiesa e le “preoccupazioni”
circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio, a proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve provenienti dagli uffici giudiziari di Milano.
Sciascia ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione. Secondo lui, la Dc, a differenza dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi dalla mafia. Molti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò, non capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe incoraggiarla in quest’opera di distacco.
Accennò a un colloquio avuto, di recente, con l’on. Calogero Mannino.

16.. Si passò, infine, all’argomento che più mi premeva conoscere: il suo futuro politico.
Sciascia fu chiarissimo e conciso. Mi ribadì l’intenzione di dimettersi da deputato a conclusione della commissione d’inchiesta sul delitto Moro e di non volersi ripresentare alle prossime elezioni.
Smentì anche la voce secondo la quale potrebbe ricandidarsi col Psi di Craxi.
Mi rispose: “Se dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali
Nel PR si era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva la più ampia libertà, anche se  era destinato a dissolversi.
In ultimo, il discorso ri-cadde sul suo impegno nelle liste del Pci a Palermo. Sciascia scosse la testa e chiuse con un laconico “Si è sbagliato da entrambe le parti”.  

(novembre 2009)

* Agostino Spataro è stato dirigente e parlamentare nazionale del Pci. E’ direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it) e collaboratore di “La Repubblica”.



 
         
     
   
            







Agrigento, Porta di Ponte, 1969- Manifestazione contadina

L'UOVO DEL SERPENTE


L’UOVO DEL SERPENTE

di Agostino Spataro



Sommario:
L’Europa in pieno subbuglio. Il liberismo è incapace di governare le economie e gli Stati. La destra estrema, xenofoba: il nuovo pericolo per l’Europa. In Italia, Berlusconi ha attutito le spinte più gravi? L’uovo di Bergman e il male del secolo. Sottrarre i giovani alle manovre della destra. Se la sinistra non vuole morire d’inedia. L’Italia si salva tutta intera.




L’Europa in pieno subbuglio
A poco più di vent’anni dal crollo del muro di Berlino, l’Europa sta vivendo la sua crisi più grave. Molteplici sono i fattori, interni ed esterni, che, nel tempo, l’hanno determinata.
Dopo il default greco e le avvisaglie che minacciano altri Paesi del sud, fra i quali l’Italia, l’Europa è in pieno subbuglio.
Inquietudini e paure si stanno impadronendo dello spirito pubblico; si temono fallimenti a catena, disordini sociali e instabilità dei governi dall’Atlantico agli Urali, dalla Finlandia alla Grecia.
Sul versante politico il dopo- Berlino ha provocato un forte ridimensionamento del ruolo e della forza della sinistra (comunista, socialista e socialdemocratica), mentre si stanno affermando  movimenti e partiti nazionalisti e neo fascisti anche come risposta alle “insicurezze”, vere e/o presunte, dei ceti più colpiti dalla crisi.
Sul terreno morale la crisi scuote le basi della cultura, dell’informazione e persino  della religione, soprattutto quelle della chiesa cattolica al centro di un ciclone che non accenna a placarsi.
Il neocapitalismo finanziario globalizzato, uscito vincitore unico dal lungo confronto, alla prova dei fatti, sta dimostrando di non essere all’altezza della situazione, anche se ha preteso e ottenuto l’asservimento ai suoi disegni della gran parte della classe politica e della stessa rappresentanza sociale.
Dal dopoguerra, mai si era verificata una condizione di predominio così incontrastato. Eppure, il risultato è lo sconquasso generale: dal disordine monetario e fiscale al mancato controllo della spesa pubblica, dalla corruzione dilagante alla crescita esponenziale della disoccupazione, alle nuove povertà.
E’ stata pianificata e attuata una destrutturazione degli assetti dei poteri, un’iniqua redistribuzione delle ricchezze nazionali (PIL) a tutto danno dei ceti produttivi medio - bassi; un colossale ri-equilibrio, in senso classista, a vantaggio dei ceti più ricchi.

Il liberismo è incapace di governare le economie e gli Stati
Insomma, alla sua prima uscita in pubblico, questo neo capitalismo, liberista solo a parole giacché i conti dei suoi disastri li continuano a pagare gli Stati e i cittadini (vedi crisi delle borse in Usa e, oggi, la crisi dell’euro in Europa), si sta dimostrando incapace di governare gli Stati e i processi da esso stesso generati.
Nel campo della politica è stato un disastro, così nei campi di sua pertinenza: della finanza e dell’economia.
Le banche, le borse valori, le società di rating, manager e consulenti prezzolati, le teste d’uovo avevano promesso il paradiso in terra, un “nuovo ordine internazionale” più giusto e più equo. Invece, ci ritroviamo con un mondo in disordine e segnato da nuove ingiustizie, da mortali pericoli per l’ambiente, per il pianeta.
Tutto ciò, mentre si riducono gli spazi di democrazia e dei diritti dei singoli e delle nazioni.
Incapaci di governare il caos e decisi a fuorviare lo spirito pubblico, i “liberisti” cercano a destra gruppi e partiti disponibili ad accendere la miscela esplosiva che minaccia l’Europa.
Nulla di nuovo sotto il solo: è solo un gioco vecchio, ai più noto.
Si riaccendono, così, nazionalismi, anacronistici rivendicazionismi territoriali, intrighi secessionisti, frustrazioni razziste, xenofobe, integralismi religiosi, intolleranze politiche, ecc.
Come dire: non potendo addomesticare per bene i popoli e gli Stati si tenta di frantumarli,  schierarli l’uno contro l’altro. Chissà se, alla fine, non ci esca una bella guerra patriottica e/o di religione? 

La destra estrema, xenofoba: il nuovo pericolo per l’Europa
Si delinea, dunque, una prospettiva davvero inquietante per un continente che ha conosciuto la tragedia del fascismo e del nazismo e, per altri versi, quella delle dittature stataliste filosovietiche. Sta emergendo, infatti, una nuova destra nazional-popolare, xenofoba, antisemita (ossia antiaraba e antiebraica) con punte dichiaratamente razziste e neo-naziste.
Il fenomeno è preoccupante poiché non si tratta dei soliti gruppi minoritari, ma di movimenti e di partiti che nelle più recenti consultazioni elettorali hanno fatto registrare risultati davvero rilevanti e inattesi, oscillanti fra il 10 e il 16%.
Tutta l’Europa è attraversata da tali tendenze. Si va, infatti, dal 15,6% del partito FPOE austriaco al 16,38% di quello della “Nuova era” in Lettonia, dal 9% del FN di Le Pen in Francia al 14,4% del Partito del popolo danese, dal 10% dei “Veri finlandesi” al  recentissimo 16% del Jobbik ungherese, dal 13% di “Ordine e giustizia” lituano al 16% del “partito della libertà” olandese, ecc.
Questa- ci sembra- la vera novità politica che sta emergendo dalla crisi europea. La destra estrema oggi spinge quella moderata ad indossare la divisa dell’intolleranza per domani soppiantarla in tutto e per tutto.   
E, con i tempi che corrono, questo domani potrebbe verificarsi anche a breve.

In Italia, Berlusconi ha attutito le spinte più gravi ?
L’Italia non è esente da tale travaglio. Tuttavia, bisogna constatare che sul terreno non operano importanti formazioni neo-fasciste. Forse, perché gran parte di tale disagio è stato intercettato dalla Lega nord la quale mantiene al suo interno forti ambiguità secessioniste e evidenti connotati xenofobi, ma non può essere tacciata di simpatie fasciste.
Perché tutto questo?
Le cause sono diverse, ma c’è né una che, forse, prevale sopra le altre. Anche a rischio d’incappare nell’accusa d’eresia, penso che parte del merito sia riconducibile a Silvio Berlusconi il quale,  coinvolgendo, per sua convenienza, la Lega e An nei suoi governi e nelle sue alchimie politiche, ha contribuito, oggettivamente, a contenere le mire elettorali e secessioniste di Bossi e alla frantumazione del blocco residuo della destra neofascista proveniente dal vecchio MSI di Almirante.
Una volta al governo, si sono affievoliti i propositi più bellicosi e i vizi hanno prevalso sulle virtù catartiche dei sacri carri.
Il sottile, irresistibile fascino del potere, le comode poltrone ministeriali, gli agi per amici e parenti più intimi, sono riusciti a fiaccare anche gli spiriti più rudi e indomiti.   
Quest’opera di contaminazione probabilmente avrà influito di più degli anatemi, delle risse dei centri sociali e di certe altalenanti incoerenze (specie verso la Lega) della  sinistra tradizionale. 
Tuttavia, prima o poi, il problema si aggraverà anche in Italia e non si potrà continuare aconfidare” nelle piroette di Berlusconi. Anche perché il suo tempo va a scadere.
C’è bisogno di ben altro.

  
L’uovo di Bergman e il male del secolo            
Ma torniamo al contesto europeo sempre più segnato da foschi fermenti che deprimono e, al contempo, esasperano lo spirito pubblico. Anche nelle società più progredite del centro-nord dove-secondo la metafora cinematografica di Ingmar Bergman- fu depositato “l’uovo del serpente”.
In questo film, terribile e un po’ presago, il regista svedese ricorse, infatti, alla metafora dell’uovo del rettile più inviso per denunciare il male incubatosi, nei primi anni ’20 del secolo trascorso, nelle pieghe della società tedesca in preda ad una gravissima crisi economica, morale e politica.
Da quell’uovo nacque il nazismo ossia il potere più perfido e micidiale che l’umanità abbia conosciuto.
Confesso che ho usato la metafora di Bergman un po’ controvoglia giacché, personalmente, non ho nulla contro i serpenti. Anzi, quando mi capita di vederli, liberi in natura, resto ammirato della loro misteriosa bellezza e abilità di mimetizzarsi, di cibarsi e di cambiare pelle.
Soprattutto, m’incanta il loro accoppiamento in verticale, esercizio complicatissimo per creature viscide e sprovviste di arti, dal quale verrà l’uovo che, secondo una certa mitologia, riprodurrà il male tentatore. Così è nell’immaginario collettivo. Anche se l’immagine evocata non ha alcun riscontro scientifico razionale. 
Tuttavia, andiamo avanti, sperando che la metafora almeno ci aiuti a rendere meglio l’idea del pericolo che si sta incubando nel corpo della società europea.
    

Sottrarre i giovani alle manovre della destra
Purtroppo, allora, il mondo sottovalutò, ignorò quelle tendenze che si affermarono, sulla spinta di grandi movimenti di massa, al governo dell’Italia e della Germania.
Nel cuore dell’Europa si crearono il clima e l’habitat adatti per far schiudere l’uovo malefico ch’era stato depositato.
Come sia andata a finire è a tutti noto. Anche se qualcuno vorrebbe negarla, la tragedia del nazismo e del fascismo è rimasta scolpita nei libri di storia e nelle menti atterrite di chi l’ha vissuta e di quanti hanno ereditato, e conservato, la memoria.
Oggi, la domanda che più inquieta è la seguente: quella terribile realtà può ritornare?
La risposta non è facile. Forse, è presto per dirlo. Eppure qualcosa di simile s’intravvede all’orizzonte. 
Al momento, fra quel passato e il presente non vi sono analogie così pregnanti (è il caso di dire).
Tuttavia, dovrebbero preoccupare, più delle stesse esibizioni di forza, le tendenze elettorali evidenziate che denotano un certo grado di consenso popolare, più o meno esasperato, a sostegno di tali disegni.
L’obiettivo è chiaro: introdurre nuovi elementi di divisione e di scontro all’interno dei settori popolari e, quindi, rompere una certa coesione politica (democratica e di sinistra) che li ha connotati.
Perciò, il fenomeno va affrontato lucidamente, senza allarmismi e senza  sottovalutazioni; con spirito dialogante, aperto cioè al recupero di settori sociali, specie giovanili, che stanno per essere trasformati in massa di manovra.
Non servono anatemi e violenze gratuite. Anzi, è questo il terreno più propizio per il dispiegamento della strategia della destra radicale. Servono idee, proposte innovative per superare la crisi senza condannare alla disperazione e alla disoccupazione i giovani, i lavoratori e i ceti meno abbienti, gli immigrati.

Se la sinistra non vuole morire d’inedia
E’ inutile girarci intorno: così com' è stata costruita, specie negli ultimi vent’anni, l’Europa va bene solo per pochi, non per tutti.   
La gestione della crisi può essere decisiva per il suo futuro, anche istituzionale. Il progetto europeo o si realizza come Unione dei popoli nella democrazia o non avrà vita facile.
In questa nostra civilissima Europa tira una brutta aria. Riappaiono i fantasmi di un passato che si pensava fosse stato sepolto sotto le rovine della seconda guerra mondiale.
Occorre uno sforzo più coerente e generoso per costruire una vera Unione, politica e sociale, dei popoli europei.   
Se non vuole morire d’inedia, la “sinistra”, comunque connotata, deve rigenerarsi e impegnarsi a giocare un ruolo trainante in questa svolta, abbandonando sterili condotte minoritarie e posizioni di governo che, talvolta, non le competono.
Oggi, il problema prioritario è quello di difendere il potere d’acquisto, i diritti al lavoro e ai servizi fondamentali delle masse emarginate o in via di esclusione.
Diritti non adeguatamente difesi da una sinistra sempre incerta e penitente, oltre che divisa.
Da qui, anche, la disillusione, la sfiducia di taluni settori sociali sempre più attirati dai richiami razzisti e fascisti.
Come se quel seme malefico stia cominciando a ingravidare anche le parti più sane della società.


L’Italia si salva tutta intera
Concludo, restando dentro la metafora, con una domanda: il (la) serpente potrebbe depositare il suo “uovo” anche in Italia?
Nel 1919 è accaduto, partendo da Milano e dalle lande più ricche e attive del nord italiano.
Il Sud, pur essendo prevalentemente conservatore, sfilò sotto le romaniche insegne ma non credo abbia aderito al fascismo con convinzione: glielo impedirono la sua ironia e la sua repulsione verso un ordine cialtrone e militaresco.
Oggi, che dire? Speriamo che non avvenga mai. Tuttavia, non si possono chiudere gli occhi di fronte alle crescenti pulsioni xenofobe, alle squadre e ai gagliardetti, alle minacce di rottura dell’unità nazionale. Bene ha fatto il presidente Napolitano, l’altro giorno a Marsala, a denunciare con forza questi pericoli.
Spiace rilevare queste cose che, in fondo, sono imputabili a una minoranza egoista e rumorosa.
Noi preferiamo restare legati alla visione di un nord dinamico, solidale e aperto al mondo che ha visto nascere il più grande evento della nostra storia nazionale: la gloriosa Resistenza al nazi-fascismo per la liberazione e l’unità dell’Italia.
Certo, sappiamo dei disagi sociali, sovente reali e motivati, di difficili problemi di vivibilità che travagliano alcune grandi città del nord, principalmente a causa delle contraddizioni create da quel modello di sviluppo, oggi, in affanno.
Problemi da considerare che, come quelli del Sud, vanno risolti nel quadro di uno rinnovato sforzo unitario e solidale.
Certo, la convivenza è difficile anche in famiglia, figurarsi fra popolazioni così distanti e diverse per cultura, reddito e condizioni di vita civile. Credo che si possa convivere, nella legalità e nella libertà.  Checché ne pensino i sacerdoti del fiume più inquinato: l’Italia si salva tutta intera o non si salva.

                               Agostino Spataro