mercoledì 19 ottobre 2016

IL GIARDINO DELLE EROICHE VIRTU'




L’urlo dei tamburi a Buenos Aires
Sfilano le “madres” (molte “abuelas”), gli orfani, i figli e le figlie dei desaparecidos. I sopravvissuti del genocidio. Trentamila furono le vit­time: una città media abitata da soli giovani dai 20 ai 40 anni, una ge­nerazione distrutta nel fiore degli anni. Poveri figli!
Erano studenti e docenti universitari, artisti, giornalisti, operai, profes­sionisti, uomini e donne strappati alla vita e a questa terra amara.
Rullano i tamburi per l’avenida de Mayo, la gran via che collega i due simboli del potere costituzionale, troppe volte violato: il Congreso e la Casa Rosada.
Il gran corteo, come un urlo cupo, insistente, potente, chiede giustizia e annuncia una nuova tempesta sotto il cielo dei platani ombrosi di questa avenida fatale..
Migliaia di bandiere stese al vento australe che rinfresca il torrido me­riggio di questo 24 marzo 2009.
Trentatré anni fa, il golpe maledetto dei generali fascisti che trascinò l’Argentina nella miseria e nella vergogna.

Il rebus delle atrocità
Su una parete del Museo della Memoria (ex scuola dell’ESMA) di Buenos Aires si legge la seguente scritta:
“30.000 giorni sono come 100 anni o come 30.000 giovani desapareci­dos, torturati, uccisi dalla dittatura militare argentina.”
Provate a risolvere questa specie di rebus delle atrocità!

La morte del Che
Improvvisamente, nella sala l'atmosfera si fece pesante, gravida di pre­occupazione, come quando si attende l’edizione straordinaria di un te­legiornale. Il presidente interruppe l'acceso dibattito sui magri destini dei nostri enti locali e diede la parola alla compagna Vittoria Giunti, partigiana e sindaco di S. Elisabetta. Avrebbe voluto essere formale, Vittoria, secondo il rituale tipico di queste circostanze, invece dopo le prime parole ''Abbiamo ricevuto dalla Direzione la conferma...'' pro­ruppe in un pianto irrefrenabile, sincero, che annunciava la morte di un sogno. “È caduto in combattimento, sulle montagne della Bolivia...'' aggiunse. Quasi a volerci rassicurare che il Che non aveva tradito; era morto combattendo, come aveva vissuto…

Il terzo palco
(sogno) Ai funerali di Pio e di Rosario, nella piazza Politeama di Pa­lermo, vidi spuntare, imprevisto, un terzo palco affollato di un coro di cento fanciulle, tutte bionde e col volto velato dalla lunga chioma, che into-narono un inno alla Pace. Vola compagno, vola!

Moro e Berlinguer
Partecipando a una seduta della commissione affari esteri della Camera mi trovai davanti all’intero Gotha della politica italiana, di governo e d'opposizione: Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Benigno Zaccagnini, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Francesco De Martino, Riccardo Lombardi, Altiero Spinelli, Ugo La Malfa, Giancarlo Pajetta, Giorgio La Pira, Giovanni Malagodi, Mario Tanassi, Antonio Giolitti, Emilio Colombo, Arnaldo Forlani, Aldo Moro...
In circa 30 metri quadri era riunita la più grande e qualificata concen­trazione del potere politico italiano. Confesso che, a vederli tutti in­sieme, e così vicini, ne restai molto impressionato.
Li scrutai a uno a uno. Osservai i loro sguardi, i loro tic, i movimenti minimi del viso, delle mani. Volevo capire cosa si nascondesse dietro quei volti formali, impenetrabili. Arroganza, paura, inquietudine, soli­tudine?
L'esame fu necessariamente sommario. A parte La Pira, che poteva già considerarsi avviato verso la beatitudine celeste, mi colpirono soprat­tutto Berlinguer e Moro per la loro espressione sofferta, quasi mesta. Era un po' il loro carattere ma credo v' influisse la consapevolezza del peso delle responsabilità che s'erano assunte in quel frangente storico.


 In quel consesso di capipartito e di corrente vidi le stimmate di un po­tere greve, fatto di voti e presidenze.
Moro e Berlinguer, invece, mi apparvero spogli di poteri siffatti e per­ciò leader autentici che fondavano il loro carisma sull’etica e sulla forza delle idee. (1977)

Fabbricanti di martiri
Il potere ottuso genera i martiri ovvero i simboli che conferiscono sa­cralità ai suoi nemici.

L’assassinio di Aldo Moro
Forse, un giorno, sapremo (o sapranno) tutta la verità sull’affaire Moro.
Tuttavia, credo che si possa senz'altro affermare che Egli è caduto per avere troppo capito e troppo osato.

A due eroi involontari che amavano la madre, la vita e la libertà
“...Si la muerte me sorprende de esta forma tan amarga, pero honesta, si no me da tempo a un ultimo grito desesperado y sincero, dejarè el aliento, el ùltimo aliento, para decir te quiero.”
Brano tratto dalla poesia di Alejandro Martin Almeida, giornalista ar­gentino “desaparecido” nel gennaio del 1975, dedicata alla madre. Aveva 20 anni e tanta voglia di lottare por la libertad.
“¡Madre, me fui! di a los hombres que lleven luto por mi pérdida... di a los niños que luchen y que sean creativos que NO destruyan...
¡Madre, adiós! a ti y a mis sueños... no os disperséis porque me haya ido... tomad fuerza y luchad... por todo aquello que yo no al­cancé...¡Adiós!
Dalla poesia dedicata a Alexis Grigoropoulos, ucciso con un colpo al cuore sparato da un agente di polizia, la sera del 6 dicembre 2008, in piazza Exarchia ad Atene. Aveva 15 anni e tanta voglia di vivere.

Palestina: due domande in una
Da quasi 70 anni, i Palestinesi lottano per una patria sovrana, per sal­vaguardare la loro identità di popolo, uno dei più antichi dell’Oriente medio.
Si battono, sovente, a mani nude, tirando sassi contro i carri armati, contro i blindati israeliani; muoiono per sentirsi vivi, per difendere la loro identità violata, frantumata, derisa.
Due domande in una: perché i palestinesi che lottano per liberarsi da un’occupazione straniera sono definiti “terroristi” e non “resistenti” come lo furono i nostri, in Italia e in Europa, che organizzarono la lotta di liberazione dal nazifascismo, mentre gli israeliani che, da 45 anni, occupano la Palestina, perseguitano, incarcerano, massacrano le popo­lazioni palestinesi sono considerati “soldati”?

Omicidi che allungano la… vita
Vi sono omicidi che “allungano” la vita del malcapitato. Metaforicamente s’intende.
Quello di Imre Nagy è un caso esemplare. Giustiziato per avere gui­dato la rivolta ungherese del 1956, subì un destino, a dir poco, biz­zarro: agì da comunista contro lo strapotere di Rakosi, capo storico de­gli stalinisti magiari; voleva salvare il comunismo, riformandolo, e per tale eresia sarà giustiziato dai “neo-ortodossi” guidati da Janos Kadar, un comunista già vittima illustre dello stalinismo.
Una vera iattura per un comunista!
Nagy fu giustiziato all’età di 62 anni. Secondo gli standard della vita media del tempo, sarebbe potuto campare altri 10- 15 anni, nel grigiore e nell’oblio o, peggio, in galera.
Invece, a causa di quell'odiosa sentenza, egli continua a “vivere”; a godersi una relativa eternità che è il traguardo cui aspira ogni essere umano, anche se per altre vie.
Oggi avrebbe 114 anni e sarebbe morto da un pezzo. A distanza di 52 anni dalla sua esecuzione, Egli è ancora vivo nella nostra memoria, ammirato e riverito.
Vivo in “statua”, potremo dire. Come in “statua” erano bruciati gli ere­tici condannati in contumacia dalla Santa Inquisizione. Santo uffi­zio e stalinismo: due spietate inquisizioni.
(Budapest, 2014)
Imre Nagy, discorso al Parlamento ungherese

Ironia sotto la forca
“Quello che proprio non mi va giù è l’idea che gli stessi che oggi m’impiccano, domani mi riabiliteranno.” *
Queste parole amare - secondo Arrigo Petacco- furono pronunciate da Imre Nagy, capo del governo insu-rrezionale ungherese del 1956, poche ore prima di essere condotto alla forca. (* in “Le notti di Kadar” di Filippo Raffaelli) L’ironica previsione non si avverò, ma ci mancò poco. 
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Agostino Spataro in:

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